Wladyslav Szpilman - Il pianista

Szpilman il pianista
Il pianista è un libro commovente. Scritto di getto subito dopo la fine della guerra, è un piccolo gioiello da conservare con cura, perché dentro non c'è solo la storia ma tantissime emozioni.
La vicenda è quella dello stesso autore, un noto pianista polacco di Varsavia. Un uomo che è miracolosamente sopravvissuto allo sterminio nazista e si racconta, e lo fa in modo quasi distaccato, come se si guardasse dall'alto, come se il dolore e l'atrocità gli abbiano regalato quella fermezza che appare, agli occhi dei superficiali, una sorta di insensibilità.

Wladyslav Szpilman lavora alla radio polacca. Suona il pianoforte ed è un pianista affermato e conosciuto. La sua famiglia è ebrea, originaria di Varsavia, e abita una delle zone che poi, durante la guerra, verranno inglobate all'interno del ghetto. Non si tratta quindi dell'esperienza di un internato, ma di un comune abitante di Varsavia ridotto a fame e miseria e incredibilmente riuscito ad evitare la deportazione fino alla fine. 


La casa degli Szpilman si trovava già all'interno della zona che poi sarebbe diventata il ghetto della città, ma nel corso del tempo le trasformazioni sconvolsero ogni cosa. Non si poteva entrare nei caffè, passeggiare nei parchi, bisognava assolutamente salutare i soldati tedeschi togliendosi il cappello, gli ebrei non potevano camminare nei marciapiedi ma solo in strada, gli ebrei pagavano il biglietto dell'autobus quattro volte tanto, non potevano prendere il treno, non avevano diritto alle vaccinazioni, dovevano portare al braccio un fazzoletto bianco con la stella azzura di David cucita sopra (e ingenuamente la famiglia si chiede: ma dobbiamo farcela noi la stella o ce la danno loro?), non potevano tenere in casa più di 2.000 zloty e tutto ciò che avevano in banca diventava di possesso tedesco.

I primi cambiamenti sono stati quelli igienici: la povertà era ovunque, e i pidocchi infestavano marciapiedi, scale, uffici pubblici. Ogni mese morivano oltre 5.000 persone di tifo. Il vaccino del tifo, studiato e realizzato dal famoso dottore polacco Weigel (il nome più popolare all'epoca dopo quello di Hitler) era venduto a caro prezzo e soltanto i più abbienti potevano permetterselo. I morti non si riuscivano a seppellire perché al cimitero, dove le fosse comuni erano ormai sature, non c'era posto. Venivano così spogliati (perché gli abiti che indossavano erano troppo preziosi), posizionati nudi sui marciapiedi, e coperti con dei giornali. 
Durante i bombardamenti in città, la famiglia Szpilman si nascose in un bagno che poteva contenere a malapena otto persone, in undici. Rimasero per 2 giorni e 2 notti in piedi, chiedendosi poi, i giorni seguenti, come ci fossero riusciti. Varsavia si arrese il 27 settembre del 1939, lasciando alle sue spalle oltre 20.000 morti che restavano cadaveri per le strade insieme ai cavalli, richiamando su di essi folle di gente affamata che cercava di mangiarli. La gente era incredibilmente più arrabbiata con il governo polacco e la polizia, che erano fuggiti lasciando sola la popolazione.

Le prime violenze tedesche si effettuavano ad opera di vetture private. Fermavano passanti, li costringevano a salire e poi li picchiavano pesantemente. Dopo l'occupazione di Varsavia cominciarono anche le prime fucilazioni, inizialmente saltuarie, poi sempre più frequenti. Il muro dell'odio cominciava a farsi strada tra la gente. 
Cominciarono ad essere emessi decreti che gli ebrei dovevano assolutamente rispettare. Erano decreti inutili, come quello del pane. Gli ebrei non potevano comprare né mangiare il pane, ma poi tutti lo facevano lo stesso, di nascosto. I decreti erano un pretesto, qualunque cosa venisse detta, poteva essere stravolta a libero piacimento dei tedeschi. 
Nel 1940 il governo nazista introduce l'obbligo dei campi di lavoro, per garantire "l'educazione sociale appropriata a parassiti inseriti nell'organismo sano delle genti ariane". Tutti gli uomini dai 12 ai 60 anni e le donne dai 14 ai 45 dovevano essere deportati. Per evitare momentaneamente la deportazione bastava farsi cambiare nome: il prezzo era di 1.000 zloty.

Il 15 novembre vennero chiusi i cancelli del ghetto, nessuno poteva uscire od entrare, se era ebreo. Il ghetto poteva contenere a malapena 100.000 persone, mentre all'interno della zona erano circa 500.000. Era difficile non scontrarsi con la gente mentre si passeggiava.
Mentre i tedeschi costringevano gli ebrei a consegnare loro pellicce di volpe argentata o di castoro, i caffè e i ristoranti restavano aperti, come a garantire una perfetta illusione. Il ghetto era a sua volta diviso in piccolo e grande, il piccolo era riservato all'intellighenzia, la borghesia, nel grande c'erano soltanto morte e povertà. Via Chlodna era una strada di grande passaggio, per poterla attraversare bisognava attendere delle ore, se eri ebreo. E ti davano solo qualche secondo per farlo, e dovevi correre e se cadevi, la gente ti pestava. Nell'attesa, i tedeschi facevano ballare in modo goffo chiunque ritenessero buffo: storpi, persone molto grasse o molto magre, nani, bambini; mentre i tram a cavalli fendevano la massa umana "come una barca che avanzi nell'acqua". 
Se una persona non poteva fare ciò che i tedeschi chiedevano, veniva uccisa. Ad esempio un uomo costretto in sedia a rotelle a cui venne ordinato di alzarsi. Lo presero e lo buttarono giù dalla finestra del terzo piano. I manganelli dei tedeschi non erano di gomma, o almeno, non solo. La gomma era arricchita di chiodi e lamette da barba. E poi le riprese della tv, per mostrare quello che non era. Ordinavano alla gente di spogliarsi nei bagni pubblici, di fare il bagno tutti insieme. Filmavano la scena e poi, soltanto dopo molti mesi, si scoprì perché. Gli ebrei di Varsavia venivano fatti apparire ricchissimi, ma anche immorali e spregevoli, dato che donne e uomini facevano il bagno tutti insieme nella stessa vasca da bagno in modo impudico.

Queste sono soltanto alcune delle cose che si possono leggere nel libro, in cui soltanto Szpilman di tutta la sua famiglia sopravvive. E rimane vivo, per sei lunghi anni, all'interno del ghetto, attraversato da sentimenti contrastanti e sempre diversi, rischiando di morire tante di quelle volte che neanche lui sa come sia invece rimasto vivo. 
Io posso soltanto dire che questo libro è una delle storie vere più toccanti e straordinarie che io abbia mai letto sull'olocausto. Leggetelo, leggetelo. E parlatene. Con tutti. Potete sentirne la musica, la tristezza, la voglia di vivere.

Di questo libro è stato tratto un film molto famoso, diretto da Roman Polanski, ed uscito in Italia nel 2002. Il film è molto toccante, anche se non fedelissimo, ma permette di farsi un'idea almeno visiva della vicenda e della situazione toccata in sorte all'autore. A mio avviso però non è all'altezza del libro, anche se capisco che possa essere stato davvero difficile realizzarne il film.



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Nota

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